In Italia la mobilità elettrica resta bloccata in una fase di stagnazione e senza interventi strutturali il divario con il resto d’Europa è destinato ad ampliarsi. È l’analisi di Andrea Cardinali, direttore generale di Unrae, secondo cui la penetrazione delle auto elettriche pure si aggira ormai da tempo intorno al 5% delle nuove immatricolazioni, all’interno di un mercato complessivamente depresso, ancora circa il 20% sotto i livelli pre-Covid. Una quota che rappresenta appena un quarto di quella registrata mediamente negli altri Paesi dell’Europa allargata. Alla base di questo ritardo, spiega Cardinali, non c’è una sola causa ma la mancanza di una serie di fattori abilitanti. Il tema del prezzo, pur rilevante, sta gradualmente riducendo il divario tra vetture tradizionali ed elettriche nei vari segmenti. Pesano molto di più, invece, l’infrastruttura di ricarica, il tema dell’autonomia reale e, soprattutto negli ultimi due anni, il costo dell’energia. “Fino a pochi anni fa – osserva – uno degli argomenti più forti a favore dell’elettrico era il drastico abbattimento dei costi di gestione: la ricarica era talmente conveniente da compensare in breve tempo il maggiore prezzo d’acquisto. Dopo la crisi del gas e la guerra in Ucraina questo non è più vero, ed è un elemento che ha inciso profondamente sulla fiducia dei consumatori”. Un altro freno strutturale è rappresentato dalla fiscalità delle auto aziendali, considerata uno dei principali fattori che separano l’Italia dal resto d’Europa. Il trattamento fiscale italiano è giudicato fortemente penalizzante non solo per il settore automotive, ma per l’intero sistema produttivo: qualunque impresa che utilizzi una flotta sostiene costi più elevati rispetto ai concorrenti tedeschi, francesi o spagnoli, a causa dei limiti sulla deducibilità, sulla detraibilità dell’Iva e sui tempi di ammortamento. Unrae porta avanti da tempo una proposta di revisione della fiscalità in chiave green che, secondo Cardinali, avrebbe un costo netto per l’erario contenuto, pari a circa 85 milioni di euro, e potrebbe in larga parte auto-ripagarsi grazie a un maggiore gettito Iva. Gli effetti positivi sarebbero molteplici: una maggiore diffusione delle nuove tecnologie nel mercato del nuovo e, soprattutto, in quello dell’usato, grazie alla più rapida rotazione delle auto aziendali, che vengono sostituite mediamente ogni tre-quattro anni contro i dieci-dodici anni del parco privato. Questo consentirebbe di rendere accessibili a fasce più ampie della popolazione veicoli più moderni, sicuri e meno inquinanti, dotati dei più recenti sistemi di assistenza alla guida. Resta centrale anche il nodo dell’infrastruttura di ricarica. Nonostante gli investimenti e una crescita significativa – i punti di ricarica sono aumentati del 24% nell’ultimo anno – l’Italia rimane al 16° posto in Europa per capillarità. In questa fase di mercato non ancora maturo, sottolinea Cardinali, il parametro chiave è il numero di punti di ricarica ogni 100 chilometri di rete stradale. A questo si aggiunge la necessità di potenziare la ricarica ad alta potenza lungo autostrade e grandi arterie di scorrimento: senza colonnine capaci di garantire ricariche in 10-20 minuti, l’auto elettrica rischia di restare confinata a un uso urbano, come seconda vettura di famiglia, lontana dalle esigenze di mobilità extraurbana a cui l’automobilista italiano è abituato. “Se vogliamo davvero accompagnare la transizione – conclude – servono interventi concreti e coerenti su fiscalità, costi di utilizzo e infrastrutture. Altrimenti il rischio è che l’elettrico resti una promessa incompiuta e che l’Italia continui a perdere terreno rispetto agli altri grandi mercati europei”.
Automobile Magazine – Italia






















